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    Hannah Arendt, "Ebraismo e modernità"

    Posted By: TimMa
    Hannah Arendt, "Ebraismo e modernità"

    Hannah Arendt, "Ebraismo e modernità"
    Feltrinelli | 1993 | ISBN: 8807812428 | Italian | EPUB/AZW3/MOBI/PDF | 232/147 pages | 0.2/0.3/0.3/0.8 MB

    Nel suo colloquio con Lord Rothschild, Herzl descriveva la carità tra gli ebrei come “un meccanismo per mantenere i bisognosi in stato di soggezione”.

    In un articolo su “L'Echo Sioniste” (20 aprile 1901) Lazare avrebbe detto quello che segue sugli ebrei francesi, che aveva imparato a conoscere durante la crisi provocata dal caso Dreyfus: “Considerate i nostri ebrei francesi. Conosco questa gente e so di che cosa è capace. Non basta loro rifiutare qualsiasi genere di solidarietà ai fratelli nati all'estero; essi devono anche accusarli di tutti i mali causati dalla propria codardia. Non si accontentano di essere più sciovinisti degli stessi francesi di nascita; come tutti gli ebrei emancipati essi hanno anche spezzato, di loro spontanea volontà, ogni vincolo di solidarietà. In effetti, sono arrivati a un punto tale che, per circa tre dozzine di uomini che in Francia sono disposti a difendere uno dei loro fratelli martirizzati, ne potete trovare migliaia disposti a montare la guardia all'Isola del Diavolo, fianco a fianco con i patrioti più fanatici del paese”

    Gli arabi non hanno mai abbandonato l'idea di uno Stato arabo unitario in Palestina, benché talvolta abbiano concesso con riluttanza limitati diritti di minoranza agli abitanti ebrei. Gli ebrei, con l'eccezione dei revisionisti, hanno rifiutato per molti anni di parlare dei loro obiettivi finali, in parte perché conoscevano fin troppo bene l'atteggiamento intransigente degli arabi, e in parte perché nutrivano una fiducia illimitata nella protezione britannica. Il Piano Biltmore del 1942, per la prima volta,formulò ufficialmente gli obiettivi politici ebraici - uno Stato unitario ebraico in Palestina con la garanzia di determinati diritti di minoranza per gli arabi palestinesi che, in quell'epoca, costituivano ancora la maggioranza della popolazione della Palestina. Al tempo stesso, nel movimento sionista si progettava e si discuteva apertamente il trasferimento degli arabi di Palestina nei paesi confinanti.
    La manodopera ebraica organizzata combatté e vinse una spietata battaglia contro la manodopera ebraica a basso prezzo; i vecchi fellahin arabi, anche se non venivano privati della loro terra dall'insediamento ebraico, divennero rapidamente una specie di cimelio, inadatto e superfluo rispetto alla nuova struttura modernizzata del paese. Sotto la guida dei lavoratori ebrei, la Palestina affrontò la stessa rivoluzione industriale, lo stesso passaggio da un ordine più o meno feudale ad uno più o meno capitalistico che i paesi europei avevano affrontato 150 anni prima. La differenza decisiva fu soltanto che la rivoluzione industriale aveva creato e occupato il suo quarto stato, un proletariato interno, mentre in Palestina lo stesso sviluppo comportò l'immigrazione dei lavoratori e lasciò che la popolazione autoctona rimanesse un proletariato potenziale, senza prospettive di occupazione come forza lavoro libera.

    Questi infelici proletari arabi potenziali non possono essere eliminati dalle statistiche sulle vendite di terra, né possono essere conteggiati solo come indigenti. Le cifre non mostrano i mutamenti psicologici della popolazione autoctona, il suo profondo risentimento nei confronti di uno stato di cose che apparentemente non la tocca, e che in realtà le ha dimostrato la possibilità di più alti standard di vita, senza neppure mantenere le implicite promesse. Gli ebrei hanno introdotto nel paese qualcosa di nuovo che, per mezzo della semplice produttività, è presto diventato il fattore decisivo. Confrontata con questa nuova vita, la primitiva economia araba ha assunto un aspetto spettrale, e la sua arretratezza e inefficienza sono sembrate prossime a una catastrofe che l'avrebbe spazzata via.

    Le spiegazioni ideologiche sono quelle che non si adattano alla realtà, ma che sono al servizio di qualche altro ulteriore interesse o movente. Questo non significa che in politica le ideologie siano inefficaci; al contrario, la loro stessa forza d'inerzia e il fanatismo che ispirano hanno spesso il sopravvento su considerazioni più realistiche. In questo senso, quasi fin dall'inizio, l'elemento negativo presente nella costruzione di una patria nazionale ebraica era costituito, tra gli ebrei, da un'ideologia mitteleuropea nazionalistica e settaria e, tra gli arabi, da un romanticismo coloniale di ispirazione oxfordiana. Per motivi ideologici, gli ebrei ignoravano gli arabi, che vivevano in quello che avrebbe dovuto essere un paese vuoto, per applicare le loro idee preconcette di emancipazione nazionale. A causa del romanticismo o di una completa incapacità di comprendere ciò che stava effettivamente avvenendo, gli arabi consideravano gli ebrei o degli invasori vecchio stile o delle nuove marionette dell'imperialismo.


    La cultura è laica per definizione. Essa richiede una larghezza di vedute di cui nessuna religione sarà mai capace. Può venire completamente snaturata dalle ideologie e dalle Weltanschauungen le quali, sebbene ad un livello più basso e volgare, hanno in comune con la religione il disprezzo per la tolleranza e la rivendicazione del diritto di possedere la verità. Benché la cultura sia ospitale, non dovremmo dimenticare che né la religione né le ideologie vorranno, né potranno mai rassegnarsi ad essere solo parti di un tutto. Lo storico, quasi mai il teologo, sa che la secolarizzazione non è la fine della religione.
    Hannah Arendt